Mir-age

 

Ernesto L.Francalanci

 

Mir-age, epoca della Mir, ma anche epoca di mirage, di miraggi. Una mostra con un tema: il viaggio nello spazio è un viaggio all’interno del nostro cervello. Il limite ultimo dell’universo corrisponde al confine attuale del nostro sapere. Entrarvi, nel tema, è facile, uscirne un problema: è il cervello l’ultima frontiera da conquistare? Vale a dire: spingerci sempre più lontano nello spazio cosmico significa penetrare sempre più addentro nell’intelligenza dell’uomo? Per questa ragione l’itinerario ideale di questo percorso "in mostra", che si dispone al rizoma, ha solo la certezza dell’entrata di fronte all’incertezza dell’uscita: imbarcarsi per il volo o sostare in quella che sarà una camera di riflessione (l’installazione di Lewis deSoto); il cervello rifletta sul cervello!

L’entrata nello spazio della mostra non può essere comunque automatico, occorrerà infatti sostare quanto è necessario in una camera di decompressione prima di affrontare il cambio di atmosfere, così come l’exit non rappresenta una soluzione, una felice via di scampo. L’ultima opera della mostra, come la prima, rappresenta infatti quell’interrogazione che ancora l’arte pone al suo spettatore: chi sei? Dove vuoi andare? Che cosa significhi?

L’ultima domanda spetta oggi ancora all’opera d’arte, l’unico sapere che interroga, che pone questioni, che genera conflitti. Nel tempo dello spettacolo, del collage casuale degli eventi, nel tempo della colla, age-de-la colle, nel tempo della simulazione totale, forse solo all’arte, a cui, da secoli, era stato demandato il compito di crearci mondi immaginari e fantastici, spetta il compito di fissare dei punti di realtà. Una funzione che rimarrà tale fintanto che l’arte continuerà ad essere un sapere diverso da quello della scienza. Fintanto che non ci sarà più differenza sostanziale tra intelligenza biologica e intelligenza artificiale, fintanto che filosofia e scienza non saranno più categorie differenti e contrapposte. Quando saremo davvero pronti per il grande viaggio. Ma, in questo momento, orgogliosamente rivendica l’arte ancora un suo ruolo critico e registico, di cui questa mostra, questo catalogo, questa avventura sono testimoni. Una tesi e un progetto, un modello e una metafora. Anche il catalogo e così l’allestimento e i materiali della comunicazione, analogici e digitali, vogliono essere in mostra; sono stati pensati (Ennio Chiggio) come opere non dissimili da quelle cui si riferiscono.

Quante dediche, dunque, in questa mostra: in senso generale a tutti coloro che hanno a che fare con il volo, da Yves Klein a Gino De Dominicis a Patrick de Gayardon, ma niente di eroico, niente di avanguardistico. Avanguardia, non avanguardismo. Ancora molta confusione "reazionaria" sulla differenza di queste categorie; perché, si sappia, siamo avanguardia anche solo nel recepire che siamo già entrati nel futuro e che questo tempo che stiamo vivendo, non ancora perfettamente coniugabile dal linguaggio usuale, è il tempo del "ritorno al futuro", un futuro che è stato già tutto pre-figurato.

Un futuro-presente dominato dalla tecnica: secondo quella tesi che va da Heidegger a Benjamin e per la cui simbolizzazione proprio Benjamin si era figurato un angelo tutto proteso in avanti, ma con la testa girata all’indietro "a guardare le macerie prodotte dal progresso". Sono parole di una canzone dedicata "in questo tempo distruttivo" allo studioso tedesco da Laurie Anderson, il primo personaggio, non a caso, che compare, assieme a Peter Gabriel, all’inizio di Good Morning, mr Orwell di Nam June Paik, la cui registrazione televisiva occupa un ruolo centrale nella mostra.

Nume tutelare della nostra camera di decompressione, Laurie performatizza da una postazione radar militare: l’artista-radar ruota su se stesso catturando segnali dal mondo, investendolo della sua radiazione. Attenti alla pericolosità dell’arte. L’arte è militare, nella sua radice l’ar- di arma, di arnese e di arto; l’arte è armata. Curiamoci da essa. Ferisce. Anche la parola avanguardia ha a che fare con il militare. Laurie ci mette in guardia: tutto ciò che vedremo è radioattivo (Radioactivity dei Kraftwerk: la citazione è obbligata).

Il percorso inizia. É iniziato. Sta per iniziare. L’entrata è oscura, come si addice a tutti i grandi viaggi. Il percorso è libero. Si snoda rincorrendo fili rizomatici. Dendriti? Le stazioni sono condensazioni neuronali. In effetti cosa sono le stazioni orbitali se non un concentrato di intelligenza progettuale, in cui s’avvera l’indistinzione delle estetiche e delle funzioni, dalle "buone forme" alle perfette ingegnerie, dalle nanotecnologie alle informatiche, dalle bioingegnerie alle neuroscienze, dalle telematiche alle telepatiche ...

L’entrata è nell’oscurità, quasi uno stereotipo: la cecità necessaria dell’occhio per aprire la visione della mente, l’opera di Nicholas Nixon [non arrivata in mostra], la ragazza cieca a cui la mano del fotografo, entrata in campo, gira il volto verso la finestra vermeeriana; non la luce più, ma solo la parola Licht (Molitor&Kuzmin) nella sua plumbea camicia di forza; mentre si scandisce inesorabile il (nostro) Count down (Pietro Mussini). Il disattivamento dell’intelligenza artificiale, il mitico cervello di Hal (Enrico Ghezzi), da parte dell’ultimo uomo non è forse una risposta "reazionaria" che contraddice tutto l’assunto del viaggio verso il futuro, là dove incontriamo la nuova metafisica dell’immateriale, che ha espulso quella dello spirito?

I monoliti, realizzati sia pure con forme, finalità e materiali assolutamente differenti, da Luciano Perna, Helmut Rainer, Karin Welponer e Giulia Battisti, non rimandano affatto ad algide geometrie minimaliste, ma sono l’effetto d’una cultura cinematografica, più meno kubrickiana, essendo il cinema un modello invidiato perfino dalla televisione, la quale, a sua volta, è fonte di ispirazione per l’uomo. Con tutto il loro bagaglio iconografico ed allusivo queste opere scultoree ci introducono nella prima presenza in mostra di due architetture dello spazio, di due modi di abitare poeticamente lo spazio: attraverso la profonda metafora espressa dall’igloo di Merz [Lo spazio è curvo o dritto? è un’opera mancata alla mostra] e attraverso l’estrema tecnologia simboleggiata dalla grande macchina sospesa della Mir, qui nella sua più perfetta rappresentazione: miraggio, percezione virtuale, ancorché a basso numero di poligoni (Fior&Pasquale).

L’arte e la scienza pervengono a queste due diverse possibilità d’abitare poeticamente lo spazio utilizzando un analogo pensiero matematico-logico. L’avanguardia attuale si è spostata su nuovi territori. Digitali. Due reti si avvolgono le une sulle altre intrecciandosi: la rete dei computer sulla terra, la rete dei satelliti in cielo. Un cerchio bianco è tutto ciò che rimane del vecchio circo che se n’è andato; lo chapiteau degli acrobati è stato smontato e sulla sua orma si è eretta (Buckminster Fuller) la totale trasparenza dell’architettura immateriale, della cosìddetta trans-architettura. La casa di silicio nel paradiso (artificiale). E la nave nei cieli. L’altra abitazione.

Mir: nave abbandonata, collisioni orbitali con oggetti vaganti nello spazio, sospesi tra cielo e terra, incompiuti, dimenticati, persi, gettati, staccati, esplosi, espulsi. Stupendo relitto, già archeologia spaziale, macchina d’antica concezione, realizzata prima della diffusione di Internet. Funzionante in orbita da più di dieci anni, teatro di drammi e tragedie, e di spettacoli con Raffaella Carrà e di mostre al suo interno (Arthur Woods, Cosmic Dancer Sculpture). Ma per noi un luogo comunque abitato, ai cui abitatori noi inviamo la nostra mostra, rovesciando l’abitudine satellitare. Non dall’alto dell’occhio onniveggente e panottico della macchina divina (D.I.O., Dispositivo Informatico Onnisciente...) verso il pianeta, ma da questa povera terra desolata e distruttiva verso la stazione sospesa, l’architettura sconquassata ma tuttora orbitante, tuttora "vivente", I.F.O., Identified Flying Object. Per noi simbolo non tanto di un’epoca, ma di una condizione, che ci ha suggerito due riflessioni, sull’abitare e sul trasloco. Sull’abitare: quale abitare in condizioni estreme, nei vettori, nelle stazioni orbitali, nelle capsule di atterraggio su pianeti, sui pianeti stessi e sui satelliti artificiali. Quale abitare nelle nuove dimensioni virtuali. Quale in un nuovo spazio dato alla mente (Marvin Minski parla di Society of Mind!).

E infine quale abitare "poeticamente" anche questi spazi ingegneristici, tecnologici, meccanici, artificiali, cibernetici. Quali opere d’arte porteremo con noi nel nostro trasloco spaziale, e in quale forma, analogica o digitale. Nell’equipaggiamento del soldato, nella fantasia di Heidegger, poteva esserci l’arte, un libro di poesie di Hölderlin; in trincea Wittgenstein, confessandosi (i Diari talvolta rivelano troppi segreti...), legge Le spiegazione dei Vangeli, di Tolstoi, "come fossero un talismano"; davanti alla scrivania di Benjamin era appeso l’acquerello di Paul Klee, l’Angelus Novus, l’angelo dalla testa girata all’indietro. Sulla plancia di comando della nuova nave spaziale, quale opera troverà sede? O forse la stessa nave spaziale sarà l’opera, originale, irripetibile, irriproducibile, auratica anche in assenza di aria.

Quali saranno i navigatori e i colonizzatori del futuro, uomini, robot, cyborg? Che cosa è cambiato nell’arte e nella comunicazione espressiva da quando l’uomo è diventato anche un essere extraterrestre? L’artista in condizione estreme, come quelle in cui viviamo, mutati, radiati, epidemizzati, elettronizzati, clonati, simulati, ha fatto scelte altrettanto estreme: l’estremo, infatti, va combattuto ed esorcizzato con le sue stesse armi. Una categoria fondamentale dell’arte è rappresentata dalla concezione sempre diversa che l’artista possiede dello spazio, essenziale componente del linguaggio stesso dell’opera per ordinare o distruggere prospettive, percezioni, sequenze, dinamiche e tempi. Lo spazio è sempre presente, tautologicamente, in ogni rappresentazione e in ogni linguaggio dell’arte: e l’arte moderna, per altro, è sempre nello spazio, effetto di uno spazio e causa di spazi imprevisti; l’opera moderna spiazza sempre e comunque, spazializza, creando distanze. Opera d’arte come cosa sempre aliena, differente, corpo estraneo, "arma spaziale".

Il primo a coglierne la potenza, Fontana. Dietro i tagli e gli strappi: lo spazio. Il nulla. Attenzione: lo spazio è nulla, è il nulla. Dietro all’opera d’arte moderna, dietro alla tela, nessun paesaggio su cui affacciarci poeticamente, ma solo l’inquietante attrazione del vuoto. Questo, Fontana. Ma Vostell, di rimando: no, dietro questa tela, al di là degli squarci voyeristici, scopriamo che non il vuoto o il nulla abita lo spazio, ma, anticipando le descrizioni ciberspaziali del Neuromancer di Gibson, il brusio catodico di un paesaggio già tutto televisivo. Trueman. Ancor più: questo velo, questa tela, questo sipario, su cui si sono proiettate e fissate per secoli tutte le nostre visioni spaziali, va attraversato: il corpo di Murakami Saburo salta al di la, nella dimensione dietro lo specchio, penetrando nell’orbita delle macchine galattiche.

La visione del pianeta: Platone "vede" la terra dall’alto, è come una palla da calcio dei nostri ragazzi, dice, ed è tutta azzurra, da queste altezze, a causa del predominare delle acque e, a questo proposito, stiamo un po’ più attenti quando parliamo dell’uomo e del soggetto, della civiltà e della cultura, perché crediamo di essere al centro del mondo ed invece siamo come delle rane che gracidano attorno al Mediterraneo. Nessuna teologia spiega questa relatività oceanica. La visione del pianeta è kleiniana, gli appartiene, è il primo artista non spaziale, ma cosmico, cosmonautico. Il primo artista "dopo Hiroshima", il primo artista che fa sue le ombre dei corpi umani gettate dalla bomba sui muri residui della città, il primo che fa sue le parole "ingenue" e pure di Juri Gagarin affacciato all’oblò della Soyuz: la terra è blu.

Da queste altezze, singolari architetture, cinesi muraglie, egizie piramidi, le luci degli sprawl, le metropoli collegate nella rete di città e villaggi e stazioni terrestri, e, in una scala più ridotta, le opere della land art, e, con finalità diversa, la gettata di cemento che Burri versa sulle rovine di Gibellina, lasciando vuote le strade, i vicoli, i passaggi. Crescere sulla morte. Utilizzare la distruzione per costruire. Dallo spazio percepire questa grande fatica umana, inarrestabile, sisifica.

Questa potente volontà dell’uomo di vincere la difficoltà, la fatica, l’ostacolo, i vincoli: i vincoli della gravità, della miseria, della morte. I vari tentativi di volo: Leonardo e il Letatlin, ma anche il racconto di Kafka all’aerodromo di Brescia, e il saut dans le vide di Klein e il tentativo di volo di de Dominicis e le figure estreme nello spazio di Patrick de Gayardon, fattosi pelle estesa della tecnologia, dello sport e dell’arte aerea.

Space suit: pelle rinforzata o decisamente altro corpo, dentro cui si fa protesi l’uomo stesso? L’esoscheletro del cosmonauta è sistema nervoso suppletivo, interfaccia tra l’interno e l’esterno, tra lo spazio dell’interno e lo spazio dell’esterno, tra il cervello del cosmonauta e il cervello della nave. Mettiamo in mostra tute spaziali russe e americane: gli stili son diversi, al di là di analoghe funzioni. Anche nello spazio portiamo segni distintivi e caratteri estetici; e tute per difendere il corpo da contaminazioni già avvenute, da radiazioni che attraversano, alcune note, la maggior parte ignote, tutto il pianeta: nessun deserto o nessuna Amazzonia si sottrae alla mutazione. Nessuna tuta davvero protegge dalla metamorfosi del profondo. Le avanguardie ne hanno prefigurato lo scenario: l’Atelier van Lieshout, con le sue architetture di sopravvivenza e gli elmi per immersione meditativa; i caschi e le cellule dell’architettura "radicale" degli anni Sessanta-Settanta dei Coop Himmelblau, dell’Indipendent Group, di Ugo La Pietra, di Walter Pichler (il MIT-TV Helm!), di Haus Rucker-Co. (il Pneumacosm). Tute come maschere, Giulia Caira in apnea sessuale. Ma accanto a tutto ciò la tuta originaria, la pelle: l’autoritratto in lattice di Marc Quinn [No Visible Means of Escape; opera, come tutta la splendida mostra "Sensation", a cui appartiene, in tournée all’estero] simboleggia la definitiva sparizione del corpo. La fine della biologia. La fine di un’era fondata sull’atomo e sulla cellula.

É ciò che sostiene filosoficamente Stelarc, il primo cyborg artistico ad usare strumenti medicali, protesi, robotica, sistemi della realtà virtuale e Internet per esplorare e accrescere i parametri del corpo: il corpo è divenuto tecnologico ed il bit prodotto dal calcolo matematico e dal silicio dei chip sta prendendo il sopravvento sugli atomi della realtà materiale; l’informazione è ciò che rende il corpo obsoleto: la rete planetaria digitale non ha più bisogno di noi. Stelarc, come d’altronde Antunez, rappresentano figure che il futuro reinventerà sotto forma di mito fondativo, quando guarderà al suo passato alla ricerca delle sue origini "classiche".

Antunez presenta uno spettacolo multimediale, durante il quale egli stesso, da solo, comanda, mediante sistemi computerizzati, tutto ciò che succede sulla scena attorno a lui; la performance, basata sul poema omerico dell'Odissea, è eseguita senza pronunciare una parola. Nel tempo delle immagini, le icone fanno cadere in afasia il soggetto, nessuna parola può più dire la cosa, che è stata sostituita dal suo simulacro.

Tra gli uomini, nell’epoca dell’informazione, più nessuna comunicazione (un satellite è stato in queste ore perso nello spazio proprio a causa di un’incomprensione umana tra pollici e decimetri ...): straordinaria provocazione del gruppo di scienziati e di tecnici, i realizzatori del Pathfinder, il robot semovente che da Marte manda informazioni alla terra, i quali eseguono una performance sulla fine della comunicazione! Nel paradiso artificiale, da loro creato, Adamo ed Eva possono solo dipendere da volontà elettroniche: comandate le loro braccia da spettatori esterni le carezze che un corpo fa all’altro sono meccaniche, prive d’affetto e reciprocamente invisibili. Incomunicanti. Cyberspace.

Cyberspace di cui Mariko Mori è consapevole gei (arte) -sha (signora): intrattenitrice elettronica, non troppo diversa dalla "perfetta" attrazione di Lara Croft, questa sì una donna tutto calcolo! Mori come artraîneuse della nuova epoca virtuale: l’artista c'immette nel suo paradiso ad una condizione, che il piacere dell’intrattenimento rimanga totalmente simulato in un interspazio compreso tra il sogno e il futuro.

Dove le macchine appartengono, come quelle di Piacentino, ad un immaginario fantastico-fantascientifico, che permette la convivenza, sullo stesso piano di significati, di cose dotate di funzioni e di cose prive di qualsiasi utilità, finalmente confondendo arte e design, architettura e scultura.

Uno spazio nel quale sono sospese le clouds, le nuvole magrittiane di Warhol, riempite di elio, lucide riflessioni a mezz’aria del mondo popolare, oggetti volanti ad ogni respiro della gente, specchi di un arredo e di un corredo che tende a perdere gravità, adattandosi al clima intergalattico. Ma oggetto sospeso con minaccia di caduta, come la pallina momentaneamente danzante sopra il soffio d'aria calda prodotta dal phon di Damien Hirst: siamo tutti sì più leggeri, sempre più aerei, sempre più soft, ma a scapito di un’enorme spesa d’energia antigravitazionale. Stiamo dimenticando la terra.

Cyberspace nel quale trascorre profetica la grande "lezione" di Paik, dall’uso della prima piccola televisione portatile della Sony, all’irruzione nello spazio macroscopico della comunicazione satellitare inviata, con Good morning, mr Orwell, da un continente all’altro, dimostrando le possibilità artistiche collettive insite nel medium, altro che l’occhio del grande fratello. Televisione come contenitore ad infinitum di "programmi" e di eventi non programmati, palinsesto globale, che non possiede più differenze tra cronaca ed arte. Non a caso MTV. A cui lo stesso Warhol collabora. A cui collaborano tutti i più grandi electronic designers, i più grandi registi. Per realizzare idens (i brevissimi capolavori autoreferenziali dell’azienda), per realizzare lo scenario delle news, per costruire i clip musicali. Rassegna MTV, curata da Enrico Lain e dedicata espressamente allo spazio cosmico. Apparentemente leggera, in realtà "arma spaziale" e strategica, la trasmissione planetaria della musica giovane induce comportamenti, fingendo di rappresentarli, e accelera il processo di occidentalizzazione universale.

Sospesi nell’assenza di gravità, immersi nel buio infinito del vuoto dentro al quale gli occhi umani si perdono per mancanza di orizzonti, prospettive, punti, coincidenze, profili, figure, sfondi, privati di umori e rumori, di profumi e di gusti, l’alimentazione è compressa in pillole e del cibo terrestre non rimane che una memoria acuta e dolorosa che confonde vivande sulla tavola e tavole di natura morta: l’arrosto del Thanks giving con l’opulenza mortale di un banchetto alla von Claesz, o alla Spoerri. E ricordi di michette milanesi, anch’esse sottoposte al biancore maleviciano di Manzoni, la baguette diventata pain peint di Man Ray, il croissant ricoperto del miele delle parole di Jiri Kolar e la prima mostra del pane del gruppo N di Padova (Alberto Biasi congelatore).

Un modello di razzo orbitale, costruito con barrette profumate di chewing gum (Maurizio Savini), immette nel versante ludico, lucidamente irriverente, del percorso: nella collezione dei supereroi di Massimo Giacon (Kirby e Druillet), al cospetto del Giudizio universale (anche i toys hanno la loro dimensione spirituale) di Silvano Tessarollo, alle famiglie di robot di Peter Keene, alle macchine sonore interattive di Peter Vogel, alla citazione marcusiana di Costantin Ciervo. C’è un’infanzia ludica della fiction, quella vissuta nelle piazze e nelle periferie delle città in ricostruzione dopo la guerra; è la nostra prima giostra (il trittico galattico di Albanese), il nostro primo razzo, il nostro primo disco volante, che nascono dal corpo altrettanto fantastico dei cartoon, inaugurando l’era della perfetta integrazione tra fumetto, immaginario, giocattolo e giochi e vita e parchi a tema della totalizzante regia simulativa della Disney Corporation. Fantasmi pop che invadevano le nostre camere ben prima di ET (Fulvio di Piazza), popolandole di ontologiche verità.

Se i Supereroi sono tali perché dotati di qualità eccezionali, l’artista non è da meno, non cambia anch’egli la forma delle cose e il loro uso e il loro destino con poteri assolutamente speciali (Sarah Ciriacì, citando il Grande Vetro duchampiano "visto da Man Ray" come fosse una polverosa landa extraterrestre)? Gunther Solo dice d'ispirarsi alla Nasa; le sue gesta, ancorché immaginarie, sono degne di una cronaca marziana letta su Novella 2000; si getta, per esempio, da un aereo e in caduta libera riesce ad eseguire un disegno, attraversa in apnea le condotte sotterranee di Parigi, e così via.

L’epoca attuale è un tempo che si sviluppa o che esplode "dopo la contemporaneità": l’attuale è un fattuale senza storia, schiacciato tra un passato strumentale e un futuro prefigurato; è un tempo dalle molte origini: siamo tutti un dopo, ed ognuno di questi eventi, segna una sua legittima data di partenza per un salto non evolutivo dalla modernità alla postmodernità. Sono "salti": il genocidio nazista, la bomba atomica, il computer, il primo allunaggio, la prima stazione orbitante, Internet, MTV, la caduta del comunismo, la clonazione ... Prima o dopo. Non prima e dopo.

Quante opere l’arte dedica a questo salto tra un mondo che era ancora conosciuto, domestico, sperimentale (la surrealtà ambientale sottolineata da Franco Scognamiglio) e un mondo che possiamo conoscere solo dentro il medium. Due immagini s'affrontano dissolvendosi l’una sull’altra, in un loop ossessivo e senza fine: l’immagine della famiglia dell’artista (Antonio Riello) davanti alla televisione il giorno dello sbarco sulla luna e l’immagine dello sbarco, due icone di culture opposte e di tempi ormai per sempre inconciliabili, uno interno e l’altro esterno, uno terrestre, l’altro cosmico.

Caos delle sfere: Carlo de Pirro dadaisticamente provoca, nella sua performance per orchestra e flipper sonoro, lo spettatore a farsi protagonista dell’unica possibile soluzione del caos: favorirlo, perchè, come direbbe Stephen Hawking, solo così facendo, cioè aumentando il disordine o l’entropia, possiamo distinguere il passato dal futuro, dando una direzione al tempo.

Misure del tempo diverse (Tatsuo Miyajima), irradiazioni luminose diverse (Tomaso Boniolo). Collassi spazio temporali (Virgil Widrich & Martin Reinhart) ed inganni percettivi (Paola di Bello) caratterizzano il mondo attuale dell’immagine. Ma, per meglio dire: l’abitudine a vedere il mondo sotto forma d’immagine fa perdere la possibilità di vedere nel mondo delle immagini. Di vedere nel mondo delle parti originali che contengono inganni percettivi più potenti di quelli artefatti. Questa l’unica possibile didattica dell’immagine: aprirci l’occhio su ciò che ancora persiste al di là di essa. E a cui non siamo più abituati. Nell’epoca dell’illuminotecnica le parole aureolate di neon di Maurizio Nannucci, se non riusciranno certo a riproporre la luce dell’illuminismo, saranno tuttavia capaci di evocare la profonda responsabilità delle parole. Un’opera, per così dire, morale e politica.

Le meraviglie della tecnica riproduttiva morfizzano i corpi, simultaneizzano gli eventi, il reale prende nuove forme, l’immateriale non è virtuale: è "presente", anzi, rende tutto co-presente, il prima e il dopo, il davanti e il dietro, il sopra e il sotto, il primo piano e lo sfondo. Quest'orrore del vuoto e del tempo stilizza la grafica di Wired e di MTV e delle opere digitali rilanciate da Ars Electronica di Linz: a produrre queste immagini non sono più gli artisti tradizionali ma nuove figure professionali che non solo utilizzano le meraviglie della tecnica, ma che la producono essi stessi. Vera rivoluzione: l’artista, come sostiene John Maeda (Media Lab) non deve più aver bisogno del tecnico e dello scienziato per comunicare tecnologicamente, come d’altronde neppure questi devono ricorrere ad un esperto delle immagini per trasmettere una loro comunicazione estetica o mettere in forma attraente un prodotto della loro ricerca.

Due modi per pensare il paesaggio inedito (Seightseeing) che s'apre alle macchine ricognitive mandate dall’uomo nello spazio: le immagini fotografiche prodotte con strumenti di grande qualità risolutiva (Images and Scientific Imagination) o i dipinti realizzati da cosmonauti e da artisti terrestri. In ambedue i casi si tratta di rappresentazioni di realtà davvero dell’altrove (si veda tuttavia la potente irruenza del cosmo all’interno delle camere d’hotel di Abelardo Morell, aperte solo ad un foro stenopeico), ma che proprio l’insieme di queste riproduzioni rende ormai stereotipe e famigliari. Nulla è più così lontano, così profondo, così enigmatico. Nulla ci è più nascosto, anche l’altra faccia della luna ha svelato i suoi segreti. Nulla rimane più di sublime in questa totale un po’ oscena esibizione di corpi sospesi. Il pittoresco ha il sopravvento; guardiamo agli anelli di Saturno con la stessa superficiale intensità con cui il viaggiatore nordico mirava le rovine archeologiche di Roma due secoli fa. Si costituisce così una sorta di gruppo internazionale di "paesaggisti extraterrestri", tra cui Chesley Bonestell - il più grande - e Ron Miller, illustratore per film come Dune o Total Recall e l’outsider mitologico, l’alieno ... Giger!.

E, di fronte a queste immagini comunque narrative e illustrative, la profonda dolcezza e la strana melanconia quasi leopardiana emanata dai sogni celesti dell’artista: il Ciel (1967) di Luciano Fabro, una grande opera nera tutta punteggiata di stelle, la Child’s Blue Wall (1962) di Jim Dine, una carta da parati strappata dalla camera di un bambino del Bronx, grandi stelle gialle sullo sfondo azzurro e una piccola mensolina con lampadina nuda, ad illuminare un cielo mai davvero visto nella realtà [ambedue le opere non pervenute alla mostra].

Un altro paesaggio ideale: quello estremo. L’ideale è l’estremo. Ancora una volta "avanguardia". Di quest’altro paesaggio artificiale si cura Roberto Masiero, storico dell’architettura e di ciò che non lo è più, sospeso tra letterario, concettuale e artistico. Architetture nello spazio, nello spazio cosmico e nello spazio digitale. Pura ingegneria di una macchina che anela di farsi abitare. Pura architettura che anela di diventare macchina e di penetrare il corpo dell’uomo e non più solo di farsi attraversare da esso. Solo così facendosi parte di quel gigantesco ipertesto che è la città informazionale, digitale, gibsoniana e di cui l’individuo è a sua volta "testo" tecnologico.

L’epoca della Mir è passata, comincia quella della International Space Station; da un abitare "architettonico" all’interno della ridotta volumetria della casa spaziale alla dinamica ampia e collettiva, quasi "urbanistica", dell’ISS. É possibile entrarvi virtualmente e visitare i singoli moduli (l’Italia ve ne ha appena mandato un secondo, dal peso di svariate tonnellate). In questo momento una telecamera di bordo, ruotando su se stessa, mi fa apparire l’interno di un modulo abitativo per sei persone. Vedo le tute appese dietro la porta, il frigorifero, le docce, le toilettes. Ancora mi domando: dove si trova l’arte, in quel foglio con disegni infantili, attaccato accanto al letto, nel libro collocato su quel ripiano, nella pellicola contenuta nella camera fotografica, nelle riprese televisive a mano? O è l’intera nave ad essere opera artistica, magnifica architettura che non ha più bisogno di contenere ciò che essa stessa esteticamente rappresenta?

Eppure non può non far riflettere il fatto che stiamo per mandare nello spazio, a questo abitatore solo fisicamente lontano, un’intera mostra dedicata a lui, una mostra che l'accompagna nel viaggio nello spazio, una mostra che appartiene al suo stesso momento culturale, al suo stesso pensiero. Uno stesso cervello ci accomuna, un pensiero reso contiguo dall’interfaccia intelligente della macchina.

Ma anche lo stesso destino di mutazione ci collega, noi che permaniamo ancora sulla terra e il cosmonauta che vive nello spazio e tra poco sulla luna e su Marte. É un destino comune di contaminazioni, di radiazioni, di metamorfosi irreversibili. Ancora una volta preveggente, uomo radar, angelo dal capo girato all’indietro, acrobata in volo, l’artista trasforma gli isotopi che attraversano il suo corpo, i raggi del nucleare, in terribili segni profetici: il corpo organico sottoposto alla scintigrafia emette segnali reattivi che permettono l’elaborazione di un’immagine elettronica. Il corpo da organico s’è fatto immateriale, digitale: questa la profezia (Davide Grassi).

Avvicinarci alla stessa opera d’arte diventa pericoloso; dobbiamo utilizzare strumenti analitici di precisione per accostarci ad essa. Il contatore Geiger, che Gudrun Bielz colloca in un punto preciso dell’ambiente, ci avverte con il suo suono che siamo giunti al confine invalicabile oltre al quale l’esperienza diventa rischiosa: ma chi vuole davvero farsi tutt’uno con l’opera (Rays), ritornare a pareggiare i conti con l’arte, rimettendo la propria vita in gioco, non potrà fermarsi davanti a nulla. L’opera va attraversata.

Al cervello è dedicata l’ultima opera, il Recital dell’artista statunitense Lewis deSoto. Quest’ultima stazione valga come camera di riflessione. Non s'esce da una mostra, senza sentirsi il capo pesante. Seduti al tavolino del caffé il capo pesante appoggerà sulla mano, che lo sosterrà, atteggiando il gesto alla posa inconsapevole del malinconico. Ma nessun languore. Nessuna nostalgia. Questo è il nostro tempo. Questo è già avvenuto. L’ultima opera, un nero disclavier elettronico che suona da solo una composizione, è dedicata precisamente al neurologo giapponese Hideomi Tuge, il quale ha cercato di trovare nel cervello vivisezionato di sua moglie, la pianista Chiyo Asaka-Tuge, la localizzazione del suo talento musicale. A noi non interessa sapere quali sono le conclusioni del dottor Tuge, perché siamo convinti, come deSoto stesso, che l’identità dell’individuo dipende da una serie di fattori molto numerosi e in parte imponderabili. Ma ciò che è certo è che all’interno del cervello e della mente, che ne costituisce la specializzazione, che dobbiamo ritrovare l’orbita perduta della MIR. É esso, il cervello, l’ultima frontiera cognitiva da conquistare, l’ultimo territorio da esplorare, il nuovo spazio verso cui mettersi in viaggio, aiutati dall’intelligenza artificiale.